Per festeggiare la Giornata Nazionale del Terapista Occupazionale che si celebra il 24 maggio abbiamo il piacere di condividere con voi un articolo pubblicato sul Giornale Italiano di Terapia Occupazionale (N°9 dicembre 2012): interessante e significativa intervista alla Dottoressa Bice Camparini che ripercorre una parte fondamentale della storia della nostra professione in Italia, mettendo in luce gli aspetti peculiari del nostro lavoro, basato sulle occupazioni significative, la partecipazione e la motivazione.
Inoltre, grazie al contributo di alcuni colleghi del nostro Albo, abbiamo prodotto un video che raccoglie le esperienze di Terapia Occupazionale in vari ambiti di intervento.
“Il passato mi ha rivelato la struttura del futuro” P. Teilhard De Chardin
INTERVISTA ALLA DOTTORESSA BICE CAMPARINI FRAMPOLLI
A cura di Elena Fabbruzzi
Giornale Italiano di Terapia Occupazionale N°9 Dicembre 2012
Ho incontrato la Dottoressa Bice Camparini a Roma, all’indirizzo storico di Via Peralba n.9, primo recapito dell’A.I.T.O. acronimo, alla sua costituzione nel 1977, di “Associazione Italiana di Terapia Occupazionale”.
Come ti sei avvicinata alla Terapia Occupazionale?
«lo ero a Firenze dove frequentavo Ia scuola per infermieri ma ogni giorno pensavo “non posso fare questo mestiere, non è per me…”. Poi, un giorno, ho preso parte ad una conferenza tenuta da una terapista occupazionale che descriveva il suo lavoro: si chiamava Elsa Hill. Così, finita Ia conferenza, sono andata subito da lei e mi sono ritrovata con altre 5 o 6 compagne di corso anche loro malcontente di fare le infermiere. La Hill ci disse “Se volete, organizziamo un corso quì, subito, però prendete anche il diploma di infermiere perché le materie che studiate possono esservi utili per la cultura generale, per gli aspetti di medicina, per le patologie, ecc.”. Le nostre famiglie ci dicevano di completare gli studi che stavamo facendo, oppure di fare l’università, ma noi decidemmo di restare. II corso è partito l’anno dopo, sempre a Firenze: eravamo in 5, andavamo all’Istituto d’arte, a Ponte Rosso, per imparare le attività: pittura, tessitura, ceramica… i nostri insegnanti erano grandi artisti, è stata una cosa magnifica. Andavamo all’università per le lezioni di anatomia, di fisiologia, per uno studio più approfondito rispetto a quello fatto nella scuola Infermieri e, poi, con lei facevamo esperienza al Meyer (nella Clinica Pediatrica Meyer lavorava Adriano Milani Comparetti, medico, fisiatra e neuropsichiatria, figura che divenne poi un riferimento significativo per la riabilitazione italiana; proprio in quegli stessi anni, per primo, cominciò ad occuparsi di bambini affetti da Paralisi Cerebrale Infantile avviando un’iniziale attività riabilitativa n.d.r.)».
Quindi, Ia tua insegnante lavorava al Meyer?
«Sì, c’era un reparto per i bambini organizzato in modo molto efficiente e lei vi lavorava avendo ottenuto una borsa di studio “Fulbright”, [si trattava di borse di studio frutto di accordi U.S.A. — Italia che venivano date per progetti di studio, ricerca o insegnamento n.d.r.]. Mentre mi trovavo al Meyer ho saputo che un’altra terapista occupazionale, Anne Nicholson, anche lei americana, aveva lavorato nell’ospedale, poi ha sposato un medico e ora vive in Svizzera. Era stata la prima di noi ma non l’abbiamo conosciuta.
Eravamo felici di questo lavoro, ci piaceva tanto. Eravamo negli anni ’53/54 e la nostra insegnante, sia perché avevamo conseguito il diploma con successo sia perché vedeva iI nostro entusiasmo, ci propose di venire a Roma per partecipare al “Congresso Internazionale della Poliomielite”. Ottenemmo anche noi una borsa di studio “Fulbright” e venimmo a Roma. Fu un’esperienza magnifica per noi… un congresso molto bello. Successivamente, la Hill mi chiese se volevo restare a Roma: “Bollea vuole che lavoriamo nel suo reparto…” [Giovanni Bollea, psichiatra nella Clinica delle malattie nervose e mentali Umberto I, Università “La Sapienza”, è stato il fondatore della Neuropsichiatria, fondando nel 1960 la prima Scuola italiana di specializzazione in neuropsichiatria n.d.r.].Delle mie compagne di studi una andò a specializzarsi in Inghilterra, mentre qualche altra è rimasta a Firenze al Meyer. Così, ho lavorato un anno da Bollea insieme a due Fisioterapiste americane, anche loro con le borse di studio “Fulbright”.
In seguito, fummo chiamate dal Professor Mario Gozzano, Direttore della Clinica neurologica [Clinica delle malattie nervose e mentali n.d.r.] il quale, contento del nostro lavoro, voile che si aprisse un reparto anche per adulti. E allora siamo passate in altre stanze, sempre al piano semi-interrato della Clinica neurologica e abbiamo organizzato il reparto.
La mia insegnante è andata via e sono rimasta da sola, fino a quando nell’anno successivo, arrivarono altre colleghe dagli Stati Uniti erano “lecturer”, ovvero facevano solo lezione, non venivano a lavorare con noi in reparto. Fu una di loro che mi disse: “Devi andare negli Stati Uniti a specializzarti” e mi hanno presentato alla commissione americana per sostenere l’esame di ammissione: io non parlavo una parola di inglese ma in una settimana ho cercato di imparare quello che potevo. Non andai benissimo, tuttavia, la commissione mi assegnò la borsa di studio. C’erano delle altre candidate…non so perché hanno scelto me…E così nel ’57 sono partita con la nave “Cristoforo Colombo”. Avrei dovuto prendere la “Leonardo Da Vinci” ma, invece, affondò ed in marzo, tra alte burrasche, sono arrivata a New York dove c’era la commissione “Fulbright” a ricevermi. Da Iì, ho preso un treno per Dallas dove ho frequentato un centro per bambini in cui sono rimasta per sei mesi. II rapporto con le colleghe era tutta un’altra cosa: si parlava, ti aiutavano: pensa che mi chiudevano nella stanza con la logopedista, un’ora al giorno, per imparare l’inglese e in effetti ho imparato alla svelta anche perché i bambini hanno un vocabolario semplice e diventa più facile imparare. Le terapiste di quel centro mi suggerirono di non tornare in Italia e di fare altre esperienze.
Tramite l’Associazione americana mi hanno dato molti indirizzi di posti in cui era possibile ottenere borse di studio: così ho fatto esperienze magnifiche, un mese di qua, due di Ià… e poi, per un anno, sono andata a Warm Springs, in Georgia, dove c’era il centro fondato da Roosevelt. Sai che lui, essendo stato colpito dalla Poliomielite, aveva promosso l’organizzazione di un centro di eccellenza, in cui poter lavorare e fare il corso nello stesso tempo… magnifico! Con quel tipo di pazienti ho imparato molto bene la chinesiologia e gli aspetti funzionali.
Quello è stato uno degli ultimi anni perché negli USA veniva già usato il vaccino, mentre in Italia ancora no, e una volta là sono corsa a vaccinarmi anche io. C’era un’organizzazione eccellente perfino nei particolari: ci cambiavano iI camice due volte al giorno! Stirato, inamidato… Era una cosa fantastica! Anche l’ambiente circostante era molto confortevole: c’erano tante villette, che Roosevelt aveva fatto costruire per la sua scorta, in cui abitavamo noi terapisti, medici, o altro personale da soli o in condivisione con altri. Ho fatto grandi amicizie con delle colleghe svedesi e con una dottoressa americana; è stato un periodo bellissimo. Poi mia madre ha cominciato a scrivermi “ma non vieni a casa?… “…erano passati tre anni!
Ma Ia mia Tutor, una terapista occupazionale canadese divenuta poi direttrice di una scuola a Toronto, mi propose di concludere il mio periodo di studio con I’esame nazionale previsto dall’Associazione Americana. Inizialmente ero incerta, pensavo di tornare in Italia, ma lei ha insistito, allora ho preparato il mio curriculum e l’ho inviato all’Associazione che valuta l’ammissione all’esame. Purtroppo, mi mancava la preparazione e I’esperienza in psichiatria e allora mi inviarono per due mesi al “White Plains” un centro per adolescenti psichiatrici. Anche Iì mi è piaciuto molto. Questi ragazzi così complessi, cosi disturbati…in terapia occupazionale facevano le frittelle! Ed io dicevo: “Ma come, questi ragazzi con tutte le loro difficoltà e con i loro problemi, fanno le frittelle?”. Ed un giorno, un medico mi disse: ” Se tu gli guarisci l’animo guarisci anche il resto!”. lo, però, avevo fretta di tornare in Italia per tutto quello che avevo imparato, oltre che per rivedere mia madre.
Finalmente sostenni l’esame, un esame difficile, tutti quiz, molti non ce la facevano ma è andato bene, sono riuscita. Questo esame mi è servito per essere membro effettivo dell’AOTA, ricevevo Ia rivista, ho ancora tutti i numeri, li leggevo volentieri e mi servivano anche per le lezioni».
Ritornando ora al tuo percorso di terapista occupazionale in Italia, quali sono state per te le esperienze di lavoro più significative?
«Tutte le esperienze sono state intense. Anche quella che feci proprio agli inizi alla Clinica Meyer, occupandomi dei bambini con Paralisi Cerebrale infantile. Lavoravo insieme alla Hill e ad un’altra terapista occupazionale fiorentina, di origine tedesca, che si chiamava Kirkeiss. Un’altra esperienza forte è stata quella presso l’Istituto di Bollea: ero da poco uscita dalla scuola e mi sentivo ancora come “una tirocinante”, anche Iì ho lavorato con colleghe straniere, molto brave, da cui ho imparato molto.
II gran coraggio l’ho preso con gli adulti. Quando sono tornata in Italia, era il ’60 e dopo circa un anno ho ripreso il mio posto al Policlinico, in Clinica neurologica, nel Reparto di Terapia occupazionale. È stato il lavoro che ho fatto più a lungo e mi piaceva molto. Ho ancora le foto di certi miei pazienti che hanno significato tanto per me… sai com’è il primo lavoro…
Mi sono trovata sola e ho amato quei pazienti anziani, paraplegici, emiplegici come se fossero mio padre o i miei fratelli e trovavo in loro una corrispondenza.
Là, nel frattempo, lavoravano anche Maurizio Maria Formica e Giorgio Sabbadini, [due medici neurologi che hanno dato un contributo significativo alla riabilitazione italiana n.d.r.] e altri giovani medici con i quali si dialogava molto bene.
II prof. Formica ha dato un notevole contributo sensibilizzando anche “i politici” e, grazie anche ai suoi contatti con il Ministro dell’epoca, il reparto è diventato bello. Era al piano più basso, era uno spazio vastissimo, con stanze attrezzate per le varie attività, falegnameria, creta, con strumentazioni ed arredi assolutamente nuovi per I’epoca: per esempio, c’era la cyclette con la sega; c’era il mini appartamento con il bagno per il training sulle A.V.Q., poi c’era la stanza per la terapia del Iinguaggio, per l’Assistente sociale, per i consulenti.
In quel tempo c’era il Prof. Davanti per I’ortopedia. Avevamo tanti pazienti ma poi nuovi venti politici cambiarono le cose e il nuovo direttore della Clinica Neurologica, il prof. Fazio, ci disse che dovevamo trasferirci al piano di sopra con uno spazio più limitato, il trasferimento doveva essere temporaneo…ad averlo saputo avrei fatto occupazione! L’ho amato tanto questo lavoro, è stato croce e delizia della mia vita. Adesso penso che se mi fossi ribellata ai superiori…forse è stato un errore tremendo…ma il ’68 è venuto dopo. E anche i medici con cui avevo collaborato, nel momento in cui ci furono imposte restrizioni, non fecero molto, forse perché i loro interessi erano altri».
Hai avuto un’ampia esperienza lavorativa occupandoti sia di adulti che di bambini. Hai lavorato anche in campo psichiatrico?
«Ho fatto solo un periodo di tirocinio, in psichiatria, mentre ero negli U.S.A., ma ci fu un gruppo di allieve nel ’68, molto brave, interessate ad un’esperienza in ambito psichiatrico e cosi andammo a parlare con il prof. Reda e con il Prof. Pancheri [docenti e responsabili del reparto psichiatrico in Clinica Neurologica n.d.r.].
Ci affidarono un gruppo di ragazze vittime di abusi. È stato bello e le studentesse furono entusiaste. II prof. Pancheri fece una relazione sul nostro lavoro tanto che in quel momento, ed anche successivamente, io e Giuliana Salvatores ci siamo impegnate molto e abbiamo continuato a lavorare presso il reparto cercando di persuaderli ad attivare una scuola di Terapia Occupazionale che desse una formazione completa, anche psichiatrica. Non ci riuscimmo e più tardi nacque Ia figura dell’infermiere psichiatrico. II lavoro con quelle giovani è stato bellissimo, ci ha dato grandi soddisfazioni e anche l’organizzazione del lavoro stesso era molto interessante: si facevano sempre riunioni d’equipe e di supervisione per analizzare quanto accadeva in terapia, si ragionava molto sul perché della terapia, sul comportamento del paziente, sugli atteggiamenti del terapista. Andavamo d’accordo e… solo le infermiere erano un po’ gelose!».
Quindi, avevi già I’incarico di docente?
«II Prof. Formica, tornato anche Iui da un’esperienza in America, cominciò ad organizzare corsi di formazione della durata di sei mesi, corsi per “Terapisti della Riabilitazione”. Io ho cominciato a fare lezioni, ma solo orientative; poi la scuola è diventata di un anno e successivamente di due. Ed in quell’anno entrò Giuliana. [Giuliana Salvatores, socia fondatrice dell’A.I.T.O. e Presidente negli anni 1991-1994 n.d.r.]».
Quando si è formato il primo nucleo di terapiste occupazionali italiane? Come siete entrate in contatto?
«II primo gruppo, a Roma, è stato quello delle mie allieve: eravamo un gruppo unito ed una delle prime fu Giuliana. Con lei abbiamo cominciato ad incontrarci, a riunirci e a pensare aIl’Associazione ma non trovavamo mai il coraggio finché abbiamo incontrato Julie Piergrossi».
E come vi siete incontrate?
«Un giorno, stavo lavorando in reparto e lei venne per una visita. Era stata a parlare con Bollea che già a quei tempi godeva di grande notorietà come Neuropsichiatra Infantile e che la invitò a visitare anche il reparto per adulti. Entrò e, vedendo sul mio camice il distintivo della scuola americana, cominciò a parlarmi in inglese.
lo le spiegai che ero italiana e le raccontai come ero arrivata a quel titolo. Da allora siamo sempre rimaste in contatto, ci incontravamo ogni tanto per parlare del lavoro, della terapia occupazionale, per realizzare degli scambi.
Una volta, mi ha invitato a Milano ad una conferenza organizzata da Silvano Boccardi, il fisiatra, per portare un contributo. Boccardi mi chiese, poi, di andare a lavorare a Milano ma non ho accettato e forse ho sbagliato. È stato con Julie che siamo riuscite a mettere in piedi l’Associazione, superando il timore di essere in pochi e con poche risorse: nel ’77 fondammo l’Associazione con un regolare Statuto, grazie all’aiuto del marito di Julie che era notaio. Eravamo in pochi ma molto legati tra noi: una storia e sempre piena di nomi e così anche la storia dell’AITO è piena di nomi e di persone che hanno fatto l’Associazione.
Ci sono state colleghe che sono sparite quasi subito. Julie è rimasta sempre e anche il suo gruppo cominciò a diventare sempre più numeroso e, da allora, ogni anno organizzavamo nostri congressi e così aumentavamo di numero sempre un po’. È stato bello quel periodo: c’era uno scambio importante, c’era grande collaborazione ed un grande amore per la professione. Subito dopo la nascita dell’Associazione, grazie a Julie, abbiamo creato un contatto con la Federazione Mondiale dei Terapisti Occupazionali per avere il riconoscimento e ciò, purtroppo, non fu possibile perché bisognava avere le scuole».
La cosa più, bella della nostra professione?
«Noi non abbiamo bisogno di troppe parole con il nostro paziente perché tutto è centrato sul lavoro, sull’attività. II perno della terapia sta negli atteggiamenti, nel modo di lavorare che poi è quello che si impara molto bene in psichiatria. Negli Stati Uniti, ho visto anche la fisioterapia, soprattutto in Georgia, fatta ad alto livello e c’erano sempre queste mani sul paziente…il muscolo… non mi piaceva. Nella nostra professione, invece, non c’è un rapporto fisico, manuale, con il paziente; si tratta invece di rapporto non verbale, emotivo, intellettuale. II rapporto non verbale mi piace tanto, anche se è più difficile».
Cosa senti di aver ricevuto dalla professione?
«Sicuramente ho potuto capire ed affrontare meglio le cose della mia vita. Ho amato tanto questa professione, pensa che sono stata fidanzata per quattro anni con il mio attuale marito, ma ci eravamo conosciuti molto prima, e rimandavo il matrimonio perché questo lavoro mi riempiva: era un motivo di litigio tra noi, lui voleva che lasciassi il lavoro. Del resto, avevo avuto l’opportunità di vedere realizzata bene la nostra professione ed ero convinta che quelle esperienze potessero organizzarsi e ripetersi facilmente anche qui».