Giornata Nazionale TFCPC, "27 luglio 1998-2021: gli occhi per guardare, costruire, cambiare"

Giornata Nazionale TFCPC, "27 luglio 1998-2021: gli occhi per guardare, costruire, cambiare"

La costruzione della propria vita professionale, della propria carriera, è un insieme di minuti, ore, giorni, mesi che diventano anni: di studio e di lavoro, di fatica e di passione, di soddisfazioni e di frustrazioni, di vittorie e di sconfitte, di competizione e di collaborazione, di amicizie trovate e di amicizie perse. Così come, del resto, nella vita non professionale. Una bellissima canzone di Niccolò Fabi, nel ritornello, recita “…tra la partenza e il traguardo, in mezzo c'è tutto il resto, e tutto il resto è, giorno dopo giorno, e giorno dopo giorno, è silenziosamente costruire…”. Si intitola, appunto, Costruire. Adesso, pensate di osservare un muretto di pietra, di quelli che costeggiano le strade di campagna. Guardandolo, difficilmente scorgerete e avrete la percezione di ogni singolo sasso che lo compone, anche se quel muro è fatto proprio da ogni singolo masso, che fa la sua parte. Eppure, sono convinto, che ci sarà un dettaglio, un particolare che noterete e di cui vi ricorderete. Forse per sempre. Forse no. Magari una pietra irregolare, con una forma particolare o di un colore un po’ diverso, una crepa, un ciuffetto d’erba o un fiore che insolente si fa spazio tra le fughe. Insomma, un qualcosa che renderà, ai vostri occhi, un muro, proprio quel muro.  Allo stesso modo, ricordo benissimo l’istante in cui decisi che, senza dubbio, avrei voluto fare il TFCPC e che avrei voluto lavorare in una sala operatoria di cardiochirurgia. Ero studente, sul finire del primo anno di corso, per cui ancora acerbo: avevo iniziato il tirocinio di sala nel secondo semestre da poco meno di sei mesi, e non sapevo ancora muovermi bene; poche erano le cose che sapevo e che potevo fare. L’intervento era finito, l’atmosfera rilassata. Bisognava solo “sbarellare” il paziente. Il circuito usato per la circolazione extracorporea nel secchione nero, la macchina cuore-polmoni portata dal sottoscritto fuori sala, dove mi attendevano il tutor ed un’altra tirocinante. Mi era stato detto di “buttare” sempre un occhio al monitor con i parametri del paziente, finché restava in sala. Ed io così facevo. Fu così che, nell’attimo in cui il paziente veniva traslato dal letto operatorio sulla barella, vidi la linea verde e regolare dell’ECG tramutarsi d’un colpo in una serie di onde irregolari e senza senso: fibrillazione ventricolare, arresto cardiaco. Per un attimo si fermò anche il mio di cuore, poi riprese a battere all’impazzata. Diedi subito l’allarme ed assistetti per la prima volta allo spettacolo: la magia della sala operatoria. Nel turbine mozzafiato dell’emergenza assoluta, solo apparentemente caotico, tutti sapevano perfettamente cosa fare. E lo facevano. Come le singole note di una partitura che insieme danno vita ad una sinfonia. Non tutte le esibizioni però terminano con gli applausi. Quella volta sì, andò bene. La causa restò un mistero, ma il paziente si salvò senza alcun postumo. Ed io capii che volevo fare questo lavoro. Almeno per un bel po’ (mi piace restare sempre possibilista rispetto al cambiamento).

Ed a proposito di cambiamenti, questo mestiere mi ha offerto davvero tanti spunti in questi ultimi tre anni.

La nascita del nostro Albo, del nostro Ordine. La trepidazione della mia prima campagna elettorale, le prime elezioni a cui ho partecipato da parte attiva. Il confronto poi con altre 18 professioni sanitarie, la maggior parte delle quali a me sconosciute prima (sono sincero), alcune molto distanti, per peculiarità e problematiche, dalla nostra: la difficoltà e la bellezza di conoscersi e di imparare a comunicare. Di trovare un modus operandi in grado di tramutare i pensieri e le intenzioni in cose concrete. L’impegno, a volte gravoso. La scoperta, non astratta, di cosa è e di cosa potrebbe essere la politica e la burocrazia (professionale, si intende). Non bastano una, dieci, cento leggi per fare una Istituzione. Ci vogliono le Persone (la P è maiuscola non a caso) e il tempo della costruzione, la pazienza: Roma non è stata fatta in un giorno. Ci vuole la politica intesa non come supremazia di una maggioranza meramente numerica. In una comunità multiprofessionale (19 professioni, 1 solo Ordine) i numeri non possono e non devono contare così tanto, se non per motivi di carattere pratico-organizzativo: è chiaro che “gestire” diecimila iscritti non è come gestirne duecento. Ma è altrettanto chiaro che ciascuna professione risponde a diversi bisogni di salute del cittadino ed è per questo insostituibile. Inoltre, la quantità dei bisogni da soddisfare (che determina poi in soldoni il numero dei professionisti “sul mercato”) non è certo detto che sia assimilabile alla qualità degli stessi. Noi saremmo pure poco più di 1400 iscritti a livello nazionale (circa 200 su Roma e provincia), ma la nostra presenza e la nostra azione, soprattutto in alcuni ambiti, può davvero fare la differenza in modo diretto tra la vita e la morte. E siccome a grandi onori corrispondono (quasi sempre) grandi oneri, da ciò deriva un profilo di responsabilità davvero molto alto che non può non essere preso in considerazione ed avere il suo giusto peso. A mio parere, la legge che ci ha dato i natali (la c.d. Lorenzin) e che tra l’altro non è stata ancora attuata nella sua totalità, non ci dà una grossissima mano in tal senso. Tuttavia, siamo un’Istituzione giovane con tante energie giovani e fresche, per cui si può ancora costruire e cambiare. Come farlo? Tra il dire e il fare c’è un oceano intero ancora da esplorare e da navigare. Magari cerchiamo di restare fedeli a quello che è lo scopo primario per cui siamo nati: tutelare il cittadino quando è più fragile, quando sta male, quando ha bisogno. Anche perché oggi sono un operatore sanitario, domani potrei essere io il paziente, potrei essere io ad avere bisogno (eviterò di descrivere il gesto apotropaico che sto compiendo mentre scrivo queste cose).

Magari cerchiamo di intendere la politica in modo un po’ diverso.

Per me la politica è sostanzialmente questo, in tutti i campi. Partire innanzitutto dall’accettazione del dato di fatto, che viviamo in un sistema con risorse limitate (che tendono ad esaurirsi) e con bisogni invece sempre crescenti, perché più diventiamo complessi più ci scopriamo fragili e bisognosi. Allora, converrà individuare i bisogni prioritari, a prescindere dai numeri, fissarli come obbiettivi, condividerli, destinare le risorse e trovare gli accordi necessari per perseguirli. In sintesi, trovare un modus operandi che sia coerente e funzionale agli scopi prefissati ed una progettualità agevole. Riscoprire l’orgoglio e l’onore di servire la comunità senza mai essere servi. A livello individuale invece, forse dovremmo tutti cercare di discriminare i bisogni reali, quelli che ci fanno stare bene dopo che li abbiamo soddisfatti, che ci lasciano “carichi”, da quelli astratti (o peggio indotti) di cui potremmo beatamente fare a meno e che non fanno altro che svuotarci.

D’altronde, gli ultimi due anni ci hanno fatto riscoprire quanto mai fragili e spauriti. La bomba coronavirus, con la sua disarmante imparzialità, ha fatto il suo prepotente debutto in società e non vuole proprio smettere di innescare le sue reazioni a catena. Ognuno di noi avrà affrontato e starà ancora affrontando la questione a modo suo. Ognuno di noi avrà avuto paura e avrà trovato, spero, il coraggio e le risorse interiori per andare avanti. Ognuno di noi avrà le sue storie, professionali e non, da raccontare o da dimenticare. Ognuno di noi avrà sopportato le sue personali barricate. Sono davvero tante le riflessioni e le emozioni che mi piacerebbe mettere nero su bianco e condividere. Non voglio soffermarmi sull’ego spesso smisurato e squisitamente narcisista delle nostre “guide” televisive, politiche e scientifiche, quando cieche, quando proprio decisamente in mala fede, e sulle loro lingue roboanti, balbettanti e confusive. Non voglio pensare al bisogno infantile di eroi a buon mercato (che eroi non sono) per poi distruggerli e dimenticarli un momento dopo, appena la tempesta si fa più clemente e concede attimi di tregua. Non voglio ricordare tutti quegli atteggiamenti negazionisti o fideistici, specchio l’uno dell’altro, entrambi figli della paura che deriva da una scarsa coscienza e consapevolezza di sé e del mondo reale che ci circonda. La caccia alle streghe, il menefreghismo. Il tutto condito dall’arroganza di credere che ormai tutto debba essere gratis, dovuto, scontato, facile e veloce, anche la conoscenza, una tra le conquiste più preziose e faticose a cui l’uomo possa ambire. Non voglio pensare alla solitudine dei più deboli e di chi non ce l’ha fatta.

Voglio invece raccontare dell’opportunità che è stata offerta a me ed ai miei colleghi. Ed a tantissimi come noi. Vi starete chiedendo, ma quale? Quella di sudare in delle tutine bianche? Quella di rischiare il contagio (o semplicemente di averne paura)? Quella di guadagnarci una misera “premialità COVID”? Quella di non poter andare in ferie? Ma certo che no. Io intendo quella che vale davvero, quella che vale oro. L’opportunità di stare dentro, di stare al centro e di poter guardare coi propri occhi quello che stava succedendo, di toccarlo con mano, senza le nuvolose mediazioni dei mass media. L’opportunità di dover fare squadra a tutti i costi per fronteggiare una minaccia violenta e inaspettata. L’opportunità di sentirsi utili. Siamo stati trasformati da un giorno all’altro in HUB COVID; l’attività cardiochirurgica sospesa, per far spazio a quanti più posti letto covid possibili, e riservata esclusivamente alle urgenze interne. Il nostro lavoro che diventa essenzialmente la gestione (in team con anestesisti-rianimatori ed infermieri) degli ECMO* nelle terapie intensive COVID (più d’una nelle fasi cruciali della pandemia). Ne abbiamo gestiti circa cinquanta e nel momento in cui scrivo ne abbiamo ancora uno in corso. Abituato a conoscere il paziente sedato e intubato su un tavolo operatorio (a scambiarci due chiacchiere al massimo prima dell’intervento), standoci così tanto a contatto in un letto di terapia intensiva, ho potuto scoprirlo persona, come mai prima. Partecipare alle sue battaglie, percepire i suoi dolori, i suoi bisogni, le sue emozioni, gioire per le vittorie, disperare per le sconfitte.

Mentre eravamo mascherati di bianco per ingannare un nemico invisibile, i suoni ovattati, le espressioni facciali interdette dalle mascherine, mi sono soffermato sugli occhi, per comunicare. E ce ne sono di bellissimi.

Voglio ricordare gli occhi fiduciosi di D., un uomo brizzolato poco più che cinquantino, che durante la prima ondata si è fatto circa due mesi di terapia intensiva prima di venirne fuori. Non ha avuto bisogno dell’ECMO ma il suo letto era proprio a fianco ad una paziente più sfortunata di lui. Mi domandava sempre quando lo avrebbero dimesso. Attendeva con trepidazione il suo tampone negativo. Non ce la faceva più, giustamente. Eppure, non si vedeva; la dolcezza, la grazia e la pazienza della sua voce e del suo sguardo, possono davvero bastare a restituirti il senso profondo delle cose. Lui era contento, era grato perché non aveva contagiato sua moglie e i suoi due figli. Adesso poteva comunicarci attraverso un tablet o uno smartphone, presto il suo traguardo più desiderato, sarebbe stato raggiunto: li avrebbe potuti riabbracciare. Nonostante tutto, D. era grato ed io sono grato a lui per avermi provato inconsapevolmente a spiegare la grazia. Ho appreso ciò che potevo.

Voglio ricordare gli occhi che si aprono alla vita e il flebile pianto, del piccolissimo M. Nato di appena un chilo e trecento grammi, alla trentesima settimana di gravidanza, in una rocambolesca notte di qualche mese fa, da una giovane donna di 39 anni in ECMO per le sue condizioni gravissime. Ce l’hanno fatta, sono salvi, sopportando condizioni che non sarebbero compatibili con la vita. Grazie ad entrambi per avermi provato inconsapevolmente a spiegare la natura, la nobiltà e la forza prorompente della lotta per la sopravvivenza che a volte travalica inspiegabilmente i limiti del nostro fragile stare al mondo. Ancora una volta, ho appreso ciò che potevo.

Personalmente non ho mai avuto davvero paura e badate che non mi vergognerei affatto a dire il contrario perché non ci sarebbe proprio nulla di cui vergognarsi. La mia mente dannatamente razionale mi ha sempre ricordato che rispettando i comportamenti e le procedure adeguate, il rischio di contagiarsi era prossimo allo zero (il rischio zero non esiste mai, è una menzogna). E tanto mi bastava. Ho invece sperimentato, come tutti, il terribile senso di impotenza e la frustrazione che ne scaturisce. Che bel colpo al delirio di onnipotenza (o alla hybris dell’antica Grecia), non più appannaggio solo dell’uomo e della società occidentale (quanto sono veloci a diffondersi i virus), non credete? Abbiamo scoperto in pochissimo tempo come l’“evidence-based medicine” senza evidenze disponibili è una pistola scarica; come tante cose che davamo per scontate, ad esempio farci semplicemente una passeggiata o prenderci un aperitivo, non sono poi così scontate. Che di fronte all’ignoto che ci sovrasta non siamo poi così diversi dall’uomo di qualche centinaio d’anni fa, solo con più strumenti e più esperienza. L’atteggiamento invece resta più o meno il medesimo, purtroppo.

Se proprio devo pensare al mio personale “inferno”, da uomo fondamentalmente pigro, ricorderò questo lungo periodo, che speriamo tutti volga al termine al più presto, con due parole: sudore e traslochi. Il sudore del buffo travestimento alla ghostbuster; gli innumerevoli traslochi in ospedale (di cui ho perso il conto) per lasciare spazio alle ondate intermittenti della marea covid. Santa pigrizia!

Se l’impegno e la fatica profusi non sono stati lontanamente paragonabili ai risultati sperati; se la guerra è stata impari di fonte ad un nemico bastardo; se i condottieri e l’esercito di soldati non sono sempre stati all’altezza delle battaglie da combattere (soprattutto i condottieri); c’è qualcosa di profondamente bello che non può non rimanere. Anche quando tutto va male, la notte è senza luna e le stelle truccate, l’alba ancora lontana…consegnare alla morte quelle poche gocce di splendore, di umanità, di verità che riusciamo, ci fa restare Uomini (ancora una volta, l’iniziale è maiuscola non a caso), sempre e comunque, a dispetto del caos intorno a noi.

Mi piacerebbe ripartire da qui.

“Linea venosa chiusa”.

“Off pump”.

 

Andrea Grottola

A.O.U. Policlinico Umberto I di Roma