La bussola delle scelte: essere madri e TFCPC ai tempi del coronavirus

La bussola delle scelte: essere madri e TFCPC ai tempi del coronavirus

Cristina Biagioli, Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare al Policlinico Umberto I, racconta la sua esperienza durante l’epidemia di coronavirus, la scelta di restare a casa per “proteggere la famiglia” usufruendo dei congedi parentali. Poi il racconto di quei giorni convulsi in ospedale: «Se non ci si è persi, lo dobbiamo alla bussola della nostra coscienza umana e professionale»

Il racconto della collega Cristina Biagioli ci fa toccare con mano le difficoltà di conciliare genitorialità e professione, soprattutto per lavori ad alto impatto psico-fisico come il nostro, acuite dai rischi e dalle preoccupazioni attuali. Il peso di scelte compiute non “a cuor leggero” ci offre, inoltre, attraverso una serie di parallelismi, alcuni spunti di riflessione in particolare circa l’impatto della pandemia di coronavirus sugli assetti ospedalieri (umani ed infrastrutturali) e sulla didattica universitaria. Buona lettura!

 

 

Il mio nome è Cristina Biagioli, sono un Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare (TFCPC) ed una mamma, lavoro presso la Cardiochirurgia del Policlinico Umberto I di Roma.

Un giovane entusiasta collega, attualmente vice Presidente della C.d.A. ed in divenire un buon amico, mi ha chiesto di scrivere questo breve articolo, toccando, come sua abitudine, delle corde che hanno vibrato, smuovendo quel torpore in cui il mio stato d'animo professionale a volte si è trovato.

 

LA SCELTA DELLA FAMIGLIA

Quando è iniziato il lockdown ho scelto di garantire e proteggere la mia famiglia restando a casa. Tra le misure per la salute, per il sostegno al lavoro, per le politiche sociali, previste dai Decreti emessi a seguito dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, ho usufruito dei 30 giorni di Congedo Parentale con retribuzione al 50%, previsti per genitori di minori di 12 anni.

La prima delle mie figlie avrebbe dovuto terminare la scuola primaria quest'anno, concludendo la prima fase dell'istruzione obbligatoria e acquisendo solide fondamenta per l'apprendimento futuro. La seconda, di appena tre anni, avrebbe frequentato l'asilo nido dove coesistono finalità educative, sociali e culturali che rappresentano i capisaldi di questa istituzione risalente ai primi del '700 e che nella società moderna hanno contribuito a collocare la donna in una condizione lavorativa paritetica. 

Ho potuto usufruire di questi strumenti, pur con una sensazione triste di negligenza deontologica, grazie alla collaborazione, all'impegno e alla professionalità di tutti i miei colleghi.

Loro hanno assistito e hanno contribuito a trasformare uno dei più grandi e antichi ospedali di Roma in un centro Hub per pazienti Covid-19: muri di cartongesso costruiti in una notte, percorsi acquisiti in decenni rivoluzionati in poche ore, macchinari di grande valore (come la macchina cuore-polmoni che sostituisce le funzioni vitali dei pazienti che affrontano la cardiochirurgia) spostati come fossero carrelli della spesa; decisioni organizzative modulate dall'incertezza e da vuoti, in termini di coerenza e continuità di intenti, avvertiti con frequenza.

Tutto concorreva a disorientare coloro che per scelta professionale avevano e hanno il dovere di controllare, monitorare e garantire il benessere psicofisico e sociale delle persone assistite. Se non ci si è persi, lo dobbiamo alla bussola della nostra coscienza umana e professionale.

Nella presentazione del Prof. Solidoro (Pneumologo presso l’A.O.U. Città della Salute e della Scienza di Torino),  esposta al webinar  “Covid-19: Esperienze TFCPC a confronto” organizzato dalla nostra Società Scientifica A.I.Te.FeP., ho ascoltato con interesse che, soltanto col senno di poi e con il peso della scrupolosità diagnostica, sono stati distinti due principali fenotipi della polmonite da Covid a cui destinare differenti approcci terapeutici (tra cui il “nostro” ECMO). A mio parere, anche negli ambiti a me più vicini, ovvero quello familiare-scolastico delle mie figlie e quello lavorativo-professionale, vanno distinti due atteggiamenti, solo apparentemente contrapposti, determinati dalla pandemia.

In primo luogo, si pensi ai comportamenti pro-attivi adottati, ad esempio, da alcune maestre, volti alla ricerca di forme nuove di interazione a distanza, basate sulle tecnologie più avanzate di connessione, che salvaguardassero gli obiettivi e l'efficacia del lavoro tradizionale. Queste scelte sono emerse con forza nel campo scolastico dove i metodi di insegnamento si sono rapidamente adattati e hanno utilizzato con validità la didattica a distanza. In questo modo sono state superate tutte (o quasi) le difficoltà tecniche e psicologiche implicite nella novità di non avere gli studenti fisicamente presenti. Le stesse problematiche le hanno dovute affrontare in tempi rapidissimi tutti i centri universitari “marchiati” Covid, compreso il nostro, per cercare di garantire, nel migliore dei modi, la continuità e la qualità delle competenze acquisite. Con la complicazione di dover forzatamente supplire il tirocinio in presenza, fondamentale almeno quanto la didattica frontale per tutte le lauree professionalizzanti, con modalità alternative di non facile attuazione e di gran lunga meno efficaci. Fondamentale è stata e sarà, in tal senso, la disponibilità ed il supporto dell’A.O. San Camillo Forlanini e del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, strutture in convenzione sempre pronte a collaborare proficuamente nel percorso formativo dei nostri studenti. 

Nella bussola delle scelte, sicuramente dettate dall’urgenza di “salvarci” e dalle endemiche carenze infrastrutturali, certo non è stata data priorità alla salvaguardia della formazione, soprattutto universitaria.

In secondo luogo, vanno invece collocate tutte le attività che non hanno potuto essere svolte se non in presenza, per le quali sono state adottate misure e regole “nuove”, ormai divenute “normali”, che vengono aggiornate in base allo stato dell’arte delle conoscenze e delle evidenze scientifiche. Questi comportamenti hanno riguardato in massimo grado il personale sanitario, tutto.

Le attività in presenza hanno infatti determinato condotte deontologicamente coerenti ma ad altissimo rischio, come è testimoniato dai tanti casi infausti.

 

UNA SFIDA VINTA

Ciò nonostante, la sfida è stata vinta sia sul piano organizzativo che su quello umano e sicuramente sarà presto vinta anche sul piano della ricerca. Chi, come me, ha privilegiato la famiglia, ha sentito il peso della scelta, forzata dalle circostanze, ma ha sviluppato un sentimento di partecipazione umana e professionale che spero sarà importante nella prospettiva futura che si apre davanti a noi.

 

Dott.ssa Cristina Biagioli

A.O.U. Policlinico Umberto I