Come devo modificare il mio lavoro? Cosa devo cambiare nella mia attività? La pandemia ha cambiato molte nostre abitudini, la routine quotidiana è stata sconvolta e la preoccupazione più grande riguarda il lavoro. Queste domande ruotano vorticosamente nella testa di tutti i Fisioterapisti che attoniti, sorpresi, risoluti, curiosi e intraprendenti hanno iniziato un percorso nuovo verso qualcosa di incerto e sconosciuto.
L’11 marzo 2020 il Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanon Ghebreyesus dichiara la pandemia nel corso di una drammatica conferenza stampa che ammutolisce il mondo intero. In Italia già a febbraio era iniziata una produzione frenetica di Decreti legge tesi a contenere il contagio che nel frattempo era partito, da Codogno. A partire da quello che ha istituito il lockdown e confinato gli italiani nelle loro case.
LOCKDOWN E LIMITAZIONE DELL’ATTIVITA’ DEL FISIOTERAPISTA
Da Twitter arriva la solidarietà internazionale: la World Confederation for Physiotherapy esprime la sua preoccupazione e la sua vicinanza ai colleghi italiani e inizia a confrontarsi con la pandemia. Di lì a poco la Spagna viene investita dal Covid19 e in breve tempo supera i numeri dell’Italia, e così via tutti gli altri Paesi, chi più, chi meno.
Attoniti, sorpresi e sconcertati, usciamo sui nostri balconi a cantare l’inno d’Italia ogni pomeriggio alle 18 cercando di farci coraggio, ma quando rientriamo in casa siamo tutti obbligati a riflettere sul nostro lavoro. Mentre facciamo la fila al supermercato, riflettiamo sulle parole chiave della pandemia: distanziamento, mascherine, sintomatico, asintomatico, cercando di tirare il filo rosso che le unisce ed organizzarle in modo sensato.
IL DPCM non comprendeva, tra le attività che devono essere sospese, la Fisioterapia; ma confina la possibilità di trattare pazienti solo agli urgenti e agli improcrastinabili.
Quali sono le caratteristiche dei pazienti che bisogna prendere in carico “con urgenza” e dei pazienti “improcrastinabili”? Il Fisioterapista inizia a riflettere sulla sua azione e sui suoi pazienti, tutta la comunità professionale riflette, cercando di individuare i criteri per definire l’urgenza o la non rimandabilità del trattamento; dalla riflessione comune scaturisce un documento elaborato dall’Associazione Italiana Fisioterapisti e dalle Commissioni di Albo (un documento tutt’ora in progress, modificato “in itinere” seguendo l’evoluzione normativa sulla pandemia):
Così, qualcosa di sconosciuto, spaventoso ed oscuro diventa un’opportunità. Il buio diventa meno denso e il Fisioterapista capisce di dover modificare molte di tutte le certezze fin qui acquisite. Approfitta del tempo a disposizione per studiare (i Fisioterapisti studiano sempre) e, tra un corso a distanza e una diretta Facebook, prende coscienza dell’importanza dei Dispositivi di Protezione Individuale (DPI), dell‘etichetta respiratoria, della sanificazione degli spazi in cui lavora e di tutte le misure atte a prevenire le infezioni.
FISIOTERAPISTI E DPI
Mai acronimo fu utilizzato con tale frequenza e mai oggetto fu più oggetto del desiderio dei Dispositivi di Protezione Individuale al tempo del Coronavirus.
I DPI sono attrezzature utilizzate allo scopo di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, utilizzate quando, nonostante l'applicazione delle misure di prevenzione e protezione collettive, i rischi cosiddetti "residui" non sono eliminati o ridotti a livelli accettabili e devono essere ulteriormente contenuti. In particolar modo il Fisioterapista è interessato ai DPI per la protezione delle vie respiratorie, per contenere il contagio da Coronavirus.
L'obiettivo dell’uso di questa tipologia di DPI è evitare o limitare l'ingresso di agenti potenzialmente pericolosi nelle vie aeree. La protezione è garantita dalla capacità filtrante dei dispositivi in grado di trattenere le particelle aerodisperse (i famosi “droplets”), per lo più in funzione delle dimensioni, della forma e della densità, impedendone l'inalazione.
I DPI più utilizzati per la protezione delle vie aeree sono le semimaschere filtranti monouso che soddisfano i requisiti richiesti dalla norma tecnica UNI EN 149:2001. Questi sono dispositivi muniti di filtri che proteggono bocca, naso e mento; si suddividono in tre classi in funzione dell'efficienza filtrante: FFP1, FFP2 e FFP3. Le lettere FF sono l'acronimo di "facciale filtrante", P indica la "protezione dalla polvere", mentre i numeri 1, 2, 3 individuano il livello crescente di protezione (bassa > 80%, media > 94% e alta > 99%).
Le introvabili, fino a poco tempo fa, mascherine chirurgiche di cui alla norma UNI EN 14683 appartengono alla categoria dei dispositivi medici (non sono pertanto DPI); non proteggono l’operatore ma il paziente.
Ma allora? Il Fisioterapista deve procurarsi le maschere filtranti? Dipende. Se il Fisioterapista lavora con pazienti non malati di Covid-19, asintomatici, è sufficiente la mascherina chirurgica, che deve indossare anche il paziente; in questo modo si realizza una protezione efficace per entrambi.
In alcuni altri casi è necessario invece l’utilizzo di mascherine dalla filtrazione più efficace; per risolvere i numerosi e inevitabili dubbi, il Fisioterapista può trovare in rete molto materiale, da selezionare; non tutto è affidabile.
Consigliamo i link delle istituzioni rappresentative, che esprimono pareri basati su evidenze scientifiche come ad esempio quello del 28 marzo dell’Istituto Superiore di Sanità.
FISIOTERAPIA A DISTANZA: UNA SCELTA OBBLIGATA O UNA SFIDA PER IL FUTURO?
IL DPCM fissava il 31 marzo come data in cui le misure di prevenzione dal contagio sarebbero state allentate e si sarebbe potuto rimettere il naso fuori di casa; in base all’andamento del contagio, è evidente.
Il 27 marzo la consueta conferenza stampa della Protezione Civile ci comunica che nelle ultime 24 ore i morti con Coronavirus sono stati più di 900; un dato terrificante e desolante, che significa che il lockdown viene prolungato fino a metà aprile, e poi si vedrà. Una brutta notizia, senza dubbio, l’incertezza per il futuro inizia a causare ansia e disturbi del sonno.
La parola “distanza” assume a questo punto significati diversi e differenziati, da applicare a tutti gli ambiti della vita quotidiana; distanziamento fisico, didattica a distanza, happy hour con gli amici a distanza, fisioterapia a distanza. Tecnologie informatiche alla mano, il Fisioterapista si reinventa e adotta la modalità a distanza per garantire l’assistenza ai pazienti. Con una semplice ed economica webcam ed un software di teleconferenza di uso comune, il Fisioterapista può collegarsi con il paziente per un consulto, per monitorarne lo stato funzionale e per proporre esercizi di mantenimento da eseguire al domicilio con supervisione. Molti documenti prodotti al riguardo, e molti strumenti di lavoro sono disponibili in rete, riassunti da questo video dell’AIFI.
D’altra parte i progressi che si sono registrati negli ultimi anni, nell’ambito delle tecnologie robotiche, dell’intelligenza artificiale e della realtà virtuale hanno avuto un notevole impatto anche nell’ambito della fisioterapia, che trova in queste innovazioni un importante aiuto ed una interessante sfida per il futuro. Perché sappiamo che il contagio sta diminuendo, ma sappiamo anche che il rischio di ulteriori ondate pandemiche è molto realistico, e immaginare di non poter lavorare ed assistere i pazienti è fuori discussione.
Possiamo pensare che tutto tornerà come prima? Alcuni pensano ad un ruolo “chiarificatore” e salvifico della pandemia per l’umanità intera, altri ricordano che il virus è solo un fenomeno darwiniano. I Fisioterapisti devono avere più prospettive, devono essere dotati, per usare una parola in voga, di resilienza, adattarsi rapidamente a situazioni rapidamente modificate; la resilienza e la sua chiave, l’ottimismo, rappresentano il “take home message” di questo incredibile, inaspettato evento -per usare, con nostalgia, il gergo degli affollati convegni cui eravamo abituati a partecipare.
«Giunti alla fine della peste, con la miseria e le privazioni, tutti gli uomini avevano finito col prendere il costume della parte che recitavano ormai da molto tempo, quello dell'emigranti il cui volto, prima, e gli abiti, adesso, esprimevano l'assenza e la patria lontana. Dal momento in cui la peste aveva chiuso le porte della città, non erano più vissuti che nella separazione, erano stati tagliati fuori dal calore umano che fa tutto dimenticare. Con gradazioni diverse, in tutti gli angoli della città, uomini e donne avevano aspirato a un ricongiungimento che non era, per tutti, della stessa natura, ma che, per tutti, era egualmente impossibile. La maggior parte avevano gridato con tutte le loro forze verso l'assente, il calore d'un corpo, l'affetto o l'abitudine. Alcuni, sovente senza saperlo, soffrivano di essersi messi fuori dall'amicizia degli uomini, di non esser più capaci di raggiungerli coi mezzi ordinari dell'amicizia, che sono le lettere, i treni e i bastimenti. Altri, più rari, come forse Tarrou, avevano desiderato di unirsi a qualcosa che non potevano definire, ma che gli pareva il solo bene desiderabile. E in difetto d'un altro nome, lo chiamavano talvolta la pace».
(Albert Camus, “La Peste”, 1948).